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Abortire in Italia: come l'obiezione di coscienza è diventata una minaccia per i diritti e la salute delle donne

Quasi 40 anni dopo la legalizzazione dell'aborto – tra proteste e movimenti di liberazione culturale – le donne faticano ancora ad accedere ai servizi essenziali. Read this article in English.

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Claudia Torrisi
17 June 2017

Piazza San Pietro nella città del Vaticano.

Piazza San Pietro nella città del Vaticano. Foto: Evandro Inetti/PA Images.

Tutti i diritti riservati. Laura è di Napoli e ha scelto di interrompere la gravidanza il 6 giugno 2008. Al figlio che stava aspettando era stata diagnosticata la sindrome di down: “Ero alla ventunesima settimana di gravidanza, e ho preso questa decisione,” spiega.

Al mattino presto è stata ricoverata all'ospedale suggeritole dal suo ginecologo, dove le è stato indotto il travaglio. Ma “il reparto per le interruzioni di gravidanza stava aperto solo per mezza giornata, a causa della mancanza di ginecologi disponibili,” racconta.

“Alle 13 sono stata spostata al reparto maternità. Sono rimasta circa 24 ore circondata da donne che stavano partorendo e medici obiettori di coscienza che non si sono presi cura di me.”

Laura è stata lasciata da sola: nessuno ha monitorato la sua perdita di sangue o la sua dilatazione, nessuno le ha alleviato il dolore o le ha dato informazioni. “Ho espulso il feto alle 9 del mattino [del giorno dopo]. Ero da sola, il cordone ombelicale era ancora attaccato al mio corpo. Ho dovuto gridare per chiamare un dottore,” mi spiega.

Ilaria si è rivolta a un ospedale di Roma quattro anni dopo, il 10 giugno 2012. Era alla 24esima settimana di gravidanza, e il feto era affetto da un esteso linfangioma (una malformazione congenita del sistema linfatico). Dottori e specialisti le avevano consigliato di abortire; anche se la bambina fosse sopravvissuta, la salute della madre sarebbe stata comunque a rischio.

“Alle 5 del pomeriggio un'infermiera mi ha applicato un catetere venoso, poi è andata via. La ginecologa è arrivata tre ore dopo per indurre il travaglio. Io piangevo, ma la dottoressa mi ha guardata a stento,” racconta la donna. In seguito ha scoperto che quella ginecologa era l'unica in tutto l'ospedale a effettuare aborti.

Ilaria stava male: “Ho urlato e vomitato ripetutamente, ma non è arrivato nessuno. Alle 3:30 del mattino le infermiere mi hanno portata nella sala parto, dove un'ostetrica mi ha visitata senza dire una parola. Lo stesso hanno fatto tutti coloro che sono entrati nella stanza nelle ore successive. Intanto io continuavo a piangere.”

Alle 6 del mattino Ilaria ha espulso il feto. Come Laura, era da sola, e ha dovuto suonare un campanello per chiamare qualcuno. In seguito la donna racconta di aver avuto capogiri, vertigini e difficoltà a respirare. Ma i dottori l’hanno mandato a casa dicendo che “avevano cose più serie di cui occuparsi e avevano bisogno del lettino.”

Laura ha scritto della sua esperienza in un libro pubblicato nel 2012. “Le donne hanno bisogno di sapere. Quando ho deciso di abortire, ignoravo tante cose. Ho scritto quello che ho vissuto, e diverse donne mi hanno poi contattata dicendo che avevano avuto storie simili,” mi dice.

“Sette ginecologi italiani su dieci sono obiettori di coscienza”

L'aborto è stato legalizzato in Italia quasi 40 anni fa – nel 1978, con la legge 194 che permette alle donne l’interruzione volontaria di gravidanza [IVG] nel primo trimestre, e dopo 90 giorni solo se c’è un rischio per la vita o la salute della madre o se ci sono gravi patologie del feto.

Questa legge è stata approvata dopo proteste e un ampio movimento per il diritto di scelta. Ma oggi, in diverse aree del paese, le donne faticano ancora ad accedere a servizi che sono un loro diritto.

Secondo la legge 194, medici, infermieri, anestesisti e altri assistenti possono dichiararsi obiettori di coscienza ed essenzialmente rifiutarsi di fare aborti. E tanti lo fanno.

I dati raccolti annualmente dal Ministero della Salute mostrano come sette ginecologi italiani su dieci siano obiettori di coscienza.

In alcune regioni, questa cifra è ancora maggiore. In Molise, per esempio, è obiettore un incredibile 93% dei ginecologi. Sicilia e Lazio sono fra le regioni dove questa percentuale supera l’80%.

In generale solo il 60% degli ospedali italiani offre i servizi di interruzioni di gravidanza. Nonostante questi numeri, verso la fine del 2016 il Ministero della Salute ha detto che“riguardo l’esercizio dell’obiezioni di coscienza...non emergono criticità nei servizi.”

Silvana Agatone, ginecologa e fondatrice della LAIGA, associazione di medici non-obiettori, mi dice che la legge 194 prevede espressamente che gli ospedali debbano fornire i servizi di aborto sia nel primo trimestre che dopo.

Però, “i medici che fanno gli aborti oltre il primo trimestre sono davvero pochi,” spiega la dottoressa, citando come esempio il caso del Lazio, dove tutti e sette i dottori che fanno aborti dopo i primi 90 giorni si trovano a Roma.

“Nelle altre città della regione – Rieti, Frosinone, Latina, Viterbo – le donne non hanno accesso a questo servizio. E questi centri stanno perdendo anche gli aborti entro i primi 90 giorni, a causa della crescente obiezione di coscienza. È un fatto molto grave,” dice Agatone.

L’anno scorso il comitato dei diritti sociali del Consiglio d'Europa ha detto che in Italia i diritti delle donne vengono violati a causa della diffusa obiezione di coscienza che limita l’accesso ai servizi di interruzione volontaria di gravidanza.

I medici non obiettori, invece, affrontano discriminazioni e “diversi tipi di svantaggi lavorativi diretti e indiretti,” ha aggiunto il comitato.

“Ecco la sua diagnosi prenatale. Se vuole abortire vada da un'altra parte.”

Nel 2013, Carla (nome di fantasia) aveva 21 anni e non si sentiva pronta per diventare madre. “Ho deciso immediatamente,” dice, riguardo la sua scelta di terminare la gravidanza nel primo trimestre. “Ma non potevo immaginare che sarebbe stato così difficile.”

Carla ha chiamato un ospedale di Roma, dove le hanno detto di presentarsi lì “al mattino molto presto.” Mi dice che è arrivata lì alle 6, in un reparto che si trovava in un sottoscala, “come se ci fosse qualcosa da nascondere.”

Non era da sola: “C'era una fila di donne in attesa, alcune di loro erano lì dalle 4 del mattino. Il reparto apriva alle 9, e solo per cinque o dieci di noi ci sarebbe stata la possibilità di accedere al servizio quel giorno. Io ho dovuto provare in un’altra struttura.”

Per gli aborti nei primi 90 giorni, gli ospedali possono chiamare ginecologi da fuori. Per le donne che chiedono “aborti terapeutici” (dopo il primo trimestre, come nelle storie di Laura e Ilaria), invece, il medico deve fare parte dello staff dell'ospedale, poiché questo tipo comporta l’induzione di una sorta di travaglio. In questi casi, l'obiezione di coscienza diventa un problema più grosso.

Intanto, il numero di centri di diagnosi prenatale continua a crescere, anche negli ospedali cattolici. “Le strutture religiose si rifiutano di fare aborti,” spiega Agatone, secondo cui, in sostanza, queste strutture dicono alle donne: “Qui c'è la sua diagnosi prenatale. Se vuole abortire vada da un'altra parte.”

Cosa fanno le donne? Molte sono costrette a migrare finché non trovano un ospedale dove riescono ad accedere ai servizi di cui hanno bisogno. “A volte devono recarsi in un'altra città o in un'altra regione. Talvolta vanno all'estero,” dice.

Il Ministero della Salute ha detto che in generale in Italia il numero di aborti è diminuito. Ma secondo Agatone questo dato ignora questioni cruciali.

“Quante donne chiedono di abortire? Non lo sappiamo. Quando le donne non riescono ad accedere all'IVG in Italia, provano all'estero o illegalmente. Sappiamo di donne che si sono provocate tramite farmaci degli aborti spontanei,” spiega.

Perché tutti questi obiettori di coscienza?

Maurizio Silvestri è un ginecologo dell'ospedale di Spoleto, una piccola città dell’Umbria. È stato obiettore di coscienza per quasi tutta la sua carriera, ma recentemente ha cambiato idea.

“Credo che il legislatore nel 1978 non avesse potuto prevedere questa epidemia di obiezione di coscienza,” mi dice.

“Nell'ospedale di Spoleto - spiega il dottore - c'è sempre stato qualcuno disponibile [a fare aborti]. Questo mi ha consentito di fare un passo indietro. Se non sei obbligato a fare aborti, non li fai: ti metti da parte e guardi le cose dalla finestra.”

Tre mesi fa, Silvestri ha ritirato la sua obiezione: “Sono certo che quando sarò chiamato a fare un'IVG – non è ancora successo – starò male. Ma so che mi sentirei peggio se sapessi che una donna è morta per aborto clandestino perché non ha trovato un ginecologo disposto a interrompere la sua gravidanza in ospedale,” spiega.

“Credo che l'embrione sia una vita? Sì, ma anche la donna lo è. Per di più l'aborto è consentito dalla legge, e questo dobbiamo rispettarlo,” dice il medico.

Questa prospettiva – e il cambiamento di posizione del dottor Silvestri – però, non è comune.

La presenza del Vaticano al centro di Roma ha sempre influenzato la politica italiana e il dibattito pubblico. L'opposizione della Chiesa cattolica all'aborto ha alimentato lo stigma verso questi servizi e verso le donne che chiedono di accedervi.

Nel 2016, Papa Francesco ha riaffermato la posizione del Vaticano, sostenendo l'obiezione di coscienza da parte dei medici: “La famiglia protegge la vita a ogni stadio...Ricordiamo a coloro che lavorano nella sanità il loro dovere morale a esercitare l'obiezione di coscienza,” ha detto.

Quest’anno, Nicola Zingaretti, presidente della regione Lazio, ha emesso un bando per l'assunzione di due ginecologi all'ospedale San Camillo di Roma, specificando che era rivolto esclusivamente a medici non obiettori di coscienza.

La decisione ha generato polemiche e riaperto il dibattito sui media sulla legge 194. La Conferenza episcopale italiana ha detto che il proposito di Zingaretti “impedisce l'obiezione di coscienza” e “snatura l'impianto della legge 194 che non aveva l'obiettivo di indurre all'aborto ma di prevenirlo.”

Marcia per la vita a Roma

Marcia per la vita a Roma. Foto: Claudia Torrisi.

Nel 2015, un sondaggio condotto da Ipsos ha rilevato che circa il 15% degli italiani intervistati ritiene che l'aborto non dovrebbe essere mai consentito o dovrebbe essere permesso quando esiste un pericolo di vita per la madre. La percentuale era dell’1% in Svezia, 3% in Francia, 5% in Inghilterra e 6% in Germania.

Lo scorso mese, migliaia di attivisti contro l'aborto hanno partecipato alla “Marcia per la Vita” a Roma. Organizzata da un network di associazioni pro-life, la manifestazione era alla sua settima edizione dal 2011.

Alcune organizzazioni cattoliche come Militia Christi e Generazione Famiglia, e formazioni politiche di destra – tra cui Noi con Salvini, Fratelli d’Italia, e il Movimento Nazionale per la Sovranità, fondato dall'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno – hanno marciato per le strade portando cartelli e striscioni con frasi come “Scegli la vita” o “Stop aborto ora.”

Agatone però ritiene che la diffusa obiezione di coscienza in Italia abbia poco a che fare con credenze religiose o morali, e più con questioni legate alle carriere dei medici.

“I ginecologi non obiettori sono spesso visti come quelli 'sporchi', a volte vengono isolati dai colleghi,” dice. “Tra l'altro, hanno più difficoltà nel progredire nelle loro carriere. La ragione è semplice: la maggior parte dei primari degli ospedali è composta da obiettori di coscienza, che per lo più vengono da scuole cattoliche. Quindi a loro volta tendono a preferire medici obiettori.”

Secondo Agatone, la situazione può anche peggiorare: “Le nuove generazioni sentono che è meglio essere obiettori, che è più facile. Pensano che ci sarà qualcun’altro a fare questo 'lavoro sporco' per loro. Ma il rischio è che presto non ci sarà proprio nessuno.”

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